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INCONTRO CON MARCO BECHIS

a cura di Renata Pepicelli e Alessandro Leogrande LO STRANIERO

 

 

Come leggere Garage Olimpo: come una ricostruzione storica di quanto è avvenuto in Argentina o come una parabola della violenza di ogni stato dittatoriale? 

 

 A me sembra interessante cogliere gli aspetti di modernità, di attualità della vicenda argentina, più che storicizzare in modo oleografico il passato. La mia idea è proprio quella di allontanarsi dalla cronaca, dai film tipicamente di denuncia. Ho capito come fare questo film, a cui da molto tempo pensavo, quando sono andato in Bosnia nel ’95.  La relazione tra l'Argentina e la Bosnia non va cercata in un rapporto storico lontano nel tempo ma nel capire che ciò che è successo in Argentina è sempre attuale, oggi ad esempio accade a Timor Est, in Cecenia... Il meccanismo della violenza dello Stato contro i propri cittadini, al fine di continuare a mantenere il potere, continua a perpetuarsi ancora oggi. Questo avviene in modi sempre più sofisticati. In Argentina e in tanti altri posti la tortura era volta unicamente all’ottenimento di informazioni, ottenute le quali il testimone veniva eliminato. Il corpo del condannato veniva utilizzato come veicolo “mediatico”.

In Bosnia mi sono accorto che l'indifferenza dell’Europa rispetto al problema bosniaco era del tutto identica all'indifferenza che c'era stata in Europa rispetto a quanto avveniva nei sotterranei argentini tra il '76 e l'82. Basta ricordare che mentre nei sotterranei migliaia di persone venivano torturate, uccise, fatte scomparire, nel ’78 in Argentina si svolgevano i campionati mondiali di calcio: la finale è stata giocata nello stadio del River Plate, a 400 metri da uno dei campi di concentramento. Quello che mi interessava era cogliere gli aspetti di modernità e per fare questo bisognava fare un film moderno anche dal punto di vista stilistico e non ricadere nel film di denuncia che spesso si occupa di storicizzare in modo banale, schematico. In un film non si può raccontare tutta la storia, un film deve essere un attimo, uno squarcio, una sensazione. Io credo che nessun film possa cambiare la Storia. Un film del genere può servire a capire i meccanismi per i quali è successo tutto ciò e a renderci tutti consapevoli. Siamo tutti in qualche modo corresponsabili. L'intenzione è quella di far suonare un campanello d'allarme e la reazione dovrebbe essere quella di fare qualcosa qui vicino, non andare in Argentina e mettere in galera i militari: di questo se ne occuperanno gli argentini quando avranno la forza di farlo, così come lo faranno i cileni quando avranno la forza di farlo, forza che ora non hanno. Il film non mira a ricordare tutte le vicende storiche di quel periodo, e questo anche per dare la possibilità di essere letto in un altro modo. Per esempio i giovani che non sanno niente di quel periodo potrebbero immaginare che tutto questo sta avvenendo qui di fianco, in un paese molto vicino. 

 

Perché  in Argentina una parte numerosa della popolazione è stata indifferente a quello che accadeva nei sotterranei? Come mai sono coesistite  due città, quella di sopra e quella di sotto, e perchè ancora oggi permangono due città così nettamente separate?

 

 Io credo per la mancanza di un tessuto civile abbastanza forte. Bisogna pensare che l'Argentina dagli anni '30 in poi ha vissuto un alternarsi di regimi civili e regimi militari. Militari e civili sono stati la stessa cosa: hanno governato il paese sostanzialmente allo stesso modo. I governi che si sono susseguiti, anche se in maniera diversa, sono stati sempre dittatoriali ma più permissivi dell’ultimo, quello che ha assestato il colpo più duro alla società civile. La forma era la stessa, ma il contenuto è cambiato di colpo, violentemente, ed è stato un disastro. La società civile all'inizio ha confuso. L'Argentina veniva da una situazione di degrado, c’era un governo peronista, le squadre della morte operavano già contro l'opposizione di sinistra, contro gli intellettuali. In un clima di completa anarchia, i militari sono arrivati quasi a mettere ordine. Hanno aspettato fino all'ultimo prima d'intervenire in modo che l'intervento fosse quasi richiesto dalla popolazione, dalla solita maggioranza silenziosa. All'inizio hanno operato quasi legittimamente, gli è stato chiesto d'intervenire. La società si è accorta solo dopo la dittatura di quanto fosse stato violento quest'intervento. 

Per rappresentare le due città che convivevano ho voluto riprendere il sopra e il sotto in maniera diversa. Il sopra e il sotto dovevano essere totalmente indipendenti e per farlo abbiamo usato tecniche di ripresa completamente diverse. Ho voluto descrivere la città di sopra con le riprese aeree, con immagini dall’alto, riprendendo le macchine che andavano e venivano, rappresentando la totale indifferenza che c’era rispetto a quanto avveniva nei sotterranei. La gente in Argentina sapeva, anche perché i campi di concentramento erano urbani, non erano fuori dalla città come quelli dei nazisti. Il fatto che non ci fosse uno stato d’assedio ha causato molta confusione, ma sfido chiunque a non riconoscere i militari e a capire che cosa facevano. Anche se in borghese, avevano un fare troppo esplicito, rozzo, arrogante. 

Per la parte di sotto abbiamo usato la luce artificiale, quella che si vede nel film, e la macchina in spalla. Mentre nella parte di sopra abbiamo lavorato in modo classico.

 

Qual è il rapporto della popolazione con questo recente passato, come è stata rielaborata la memoria di quello che è successo? Sarebbe stata possibile qualcosa come la Truth Commision del Sudafrica?

 

 Per adesso non si può dire che esista, nel paese, un rapporto della popolazione con la memoria, ammesso che si possa parlare di una adesione così generalizzata della popolazione tutta ad un'idea di storia del proprio paese. Esiste una spaccatura verticale, che non c’è nei paesi europei, tra chi si occupa di questi problemi, tra chi conserva la memoria di quanto è avvenuto in Argentina, e chi fa finta che queste cose siano avvenute in un altro paese. L'atteggiamento degli argentini oggi non è di opposizione o di protesta, ma è d'indifferenza.  

In Argentina non si è verificato nulla di simile alla Truth Commision sudafricana e non potrebbe esserci neanche ora, a causa della mentalità della società e per il sistema di valori che si è instaurato dopo la dittatura militare. In Sudafrica il regime è caduto a furor di popolo, in Argentina è caduto per sgretolamento dopo la guerra delle Malvine; guerra che i militari hanno cercato di utilizzare come copertura del crescente dissenso sociale. Hanno tentato questa mossa pensando che gli inglesi non avrebbero detto nulla, invece gli inglesi hanno vinto la guerra e il governo si è sgretolato. Non c'è stata nessuna opposizione interna che si è sostituita e che ha chiesto delle condizioni di resa: è stato tutto molto ambiguo. Nell’’85 c’è stato un processo contro i militari. E’ stato un processo molto seguito, dibattuto: è stato uno shock, tutti hanno saputo. E’ apparsa davanti ai loro occhi una commissione nazionale che ha giudicato i generali colpevoli di atti, di crimini efferati, ma i quadri intermedi sono stati tutti amnistiati. E’ stata promulgata una legge secondo cui tutti quelli che obbedivano agli ordini non erano passibili di pena. Migliaia di militari sono liberi in virtù di questa legge. Alcuni di loro sono stati anche rieletti.

 

Dimenticare la propria storia non è proprio il problema del nostro tempo, in Argentina come in Italia?

 

 Dimenticare secondo me è un problema molto accentuato in Argentina. In Italia andiamo in quella direzione certamente in modo più lento, la società civile è ricca di esperienze, per fortuna siamo in tanti qui che la pensiamo così. Ma la linea che si vuole instaurare in Italia è la stessa, l'idea della globalizzazione della cultura. La mancanza di memoria è legata ai media. Tutti gli orrori che noi viviamo mediaticamente, che ci vengono sbattuti in faccia dai media sono automaticamente consumati nel momento stesso in cui li vediamo: li dobbiamo assorbire, li dobbiamo consumare e metterli da parte. In quel momento lì noi li abbiamo in qualche modo fagocitati, ma quel tema non lo abbiamo elaborato, riflettuto, quindi è come se non l'avessimo mai visto. Questa è secondo me la perversa azione dei media oggi. 

 

Ciò che più colpisce del tuo film è il pudore delle immagini. La violenza è sempre solo intuita, mai esposta, mai sbattuta in faccia. Non si vedono torture, non si vedono violenze sessuali, eppure si è totalmente investiti dall’orrore di ciò che accadeva nei sotterranei.

 

 La cosa che mi ha bloccato a lungo nella realizzazione del film è stata l'immagine. Non riuscivo a trovare delle immagini per rappresentare quella storia. Il film su Eichmann è un bellissimo film proprio perchè ci sono delle immagini anche se indirette. Credo che ci sia un filo conduttore tra il mio film e quello, pur non avendolo visto prima delle mie riprese. Ho capito che l'unico modo per poter rappresentare queste cose era non mostrandole, perché ragionando sull'impatto che le immagini hanno sullo spettatore, arrivavo inevitabilmente alla conclusione che quelle cose erano irrappresentabili per immagini, così come certe cose sono inudibili per suoni: tu puoi udire urla, tutti quelli che sono stati dentro le hanno sentito, ma non c'è nessun attore, nessun doppiatore che può riprodurle, sarebbero finte. Solo una volta nel film si sentono delle urla ma sono mescolate alla musica: era per dare l'idea che dietro quella radio accadeva sempre qualcosa del genere. Bisognava quindi fare un film in cui non si mostrasse la tortura, la violenza esplicita. In questo modo la violenza rimane nella testa dello spettatore, perché la si deve immaginare, e quindi diventa più persistente. Anche una violenza immaginata permette la riflessione cosa che invece la violenza sbattuta in faccia non ti permette. In un film americano si mangiano i popcorn. In pochi credo che  mangino popcorn davanti al mio film. 

 

Qual è stata la reazione dei cineasti, degli artisti argentini a quello che era accaduto nel proprio paese sotto la dittatura militare?

 

 In Argentina dopo la dittatura militare, generalmente, i cineasti, gli artisti invece di aprirsi al tema in modo documentaristico, filmando tutto quello che si poteva filmare dei campi, delle madri che cercavano notizie sui figli scomparsi, hanno mediato l’impatto con la realtà. Cosa che non è successa dopo la seconda guerra mondiale, perché i grandi registi americani sono andati a girare ad Auschwitz. In Argentina ci sono stati filtri e storie ufficiali. La notte delle matite spezzate, che a me non è piaciuto, e molte altre rielaborazioni hanno in qualche modo canalizzato l’attenzione, hanno dato delle immagini. Ma quali immagini? La storia ufficiale non ha immagini, ma temi sviluppati mediante il melodramma. Mi sono allora accorto che c'era stato un filtro: da una parte quello che poteva essere detto, dall’altra quello che non poteva essere detto. La prova tangibile sono le riprese del processo ai militari, assai diverse da quelle del processo ad Eichmann. Quest'ultimo è stato filmato bene dai cineasti, dagli operatori che hanno avuto la capacità di cogliere le cose come stavano. Invece l'unico documento filmato in video del processo ai militari dell’’85 è composto dalle immagini fisse di una telecamera posta in fondo alla camera del tribunale: sono tutti di spalle. Durante quei mesi quelle immagini venivano trasmesso dalla televisione senza audio. Quando c’è l'audio, si sente tutto ma non si vede mai nessuno in faccia. Allora ti rendi conto di come funzioni la volontà di filtrare e di come i media abbiano collaborato. Evidentemente il potere in quel momento aveva deciso di utilizzare questo strumento mediatico e i cineasti ci sono stati. Ho pensato che quella mancanza di immagini andava colmata. Il film doleva essere anche una riflessione su quali sono le immagini dei desaparecidos. Che poi paradossalmente sono delle immagini che non mostrano cosa è successo concretamente ai desaparecidos.

 

Se non è possibile creare delle immagini che riproducano la violenza dei sotterranei però è possibile descrivere come venivano reiterati dei comportamenti quotidiani nei campi di concentramento, come funzionava la burocrazia.

 

 La mia idea era di raccontare il funzionamento dei campi di concentramento moderni, il funzionamento di questa struttura burocratica, come se fosse un ufficio, perché era così. Non volevo inserire i personaggi che interpretano i militari, i torturatori, nel cinema, ma sottrarli al cinema. La predisposizione naturale del regista, della produzione, degli attori davanti ad una cinepresa, è di sviluppare al massimo il carisma dei cattivi, vedi Il Padrino. A me invece interessava lavorare per sottrazione: così come non mostriamo le torture, non dobbiamo mostrare la personalità di questi torturatori. Quando un attore mi chiedeva della psicologia del proprio personaggio, perché, avendo lavorato senza sceneggiatura, loro non avevano idea di quale fosse lo sviluppo della storia, io gli rispondevo: “tu sei un torturatore, devi essere preparato a quella funzione. Cosa farà nella storia il personaggio non ti deve interessare, te lo dirò giorno dopo giorno.” Quando qualcuno mi ha chiesto di poter contattare un torturatore perché lo aiutasse in qualche modo a capire, ho minacciato di cacciarlo, nel caso avesse avuto qualche contatto. Non volevo che avessero nessun contatto con i torturatori. Dovevamo ricostruire la storia con la nostra immaginazione, elaborando noi stessi tutto quel mondo. Siamo noi che li abbiamo definiti, non sono stati loro a definirsi. Questa separazione è stata importante, anche perché la contiguità era reale. Una volta mentre passeggiavo con l’aiuto regista, abbiamo incrociato con lo sguardo un ex torturatore che in un bar beveva il caffè, uno di quelli veri, ne avevamo visto sui giornali la foto. Mentre parlavamo della finzione ce ne era uno lì, in carne ed ossa, davanti a noi... I media li hanno usati per fare dibattiti, per consumare anche questa vicenda. Quando ho riguardato verso il bar, era soddisfatto per il fatto di essere stato riconosciuto. Questa è la sensazione di impunità che avverti quando incontri uno di loro. 

Questo film, a parte le riprese aeree e due tre scene, si poteva tranquillamente girare a Cinecittà in un interno. E’ stato girato in Argentina perché era importante farlo in quell’ambito: con attori argentini, con sopravvissuti che venivano sul set, con i vestiti appartenuti ai desaparesidos.

 

Hai detto che non ti interessa la psicologia dei personaggi. Spiegaci meglio.

 

Nel mio film non c’è la volontà di scavare nella psicologia dei personaggi. Ad esempio non ho inteso il rapporto tra Felix e Maria come rapporto psicopatologico vittima-carnefice: film del genere ci sono, ma a me non piacciono. Qui ci sono un ragazzo e una ragazza che si conoscevano da prima. Mi interessava mostrare come un sequestrato, nel momento in cui conosce un altro essere umano, fa di questo rapporto un’ancora di salvezza. Mentre lui rovescia su di lei tutti i suoi fantasmi, questo diventa per lei un modo per sopravvivere. E’ successo spesso che i militari si avvicinassero a delle guerrigliere. Quando queste ragazze capivano che avevano un potere anche minimo su qualcuno, lo utilizzavano. Quando sei in un campo di concentramento diventi un computer: il tuo unico obiettivo è la salvezza.

I torturatori erano persone comuni, banalissime, molto povere di spirito. Non hanno avuto la forza di non fare quello che hanno fatto. Erano legittimati dalla polizia, dalla burocrazia, dai campi di detenzione, che per il semplice fatto di funzionare li legittimavano. A me non importa chi sono psicologicamente i personaggi, a me importa che funzionino come struttura burocratica, come impiegati. Ho voluto raccontare il campo di concentramento come se si fosse in un comune ufficio, con le sue invidie, le sue competizioni. Abbiamo lavorato per ricostruire questo clima di assoluta normalità: abbiamo ricostruito il campo di concentramento nei suoi momenti morti piuttosto che nei suoi momenti eccezionali. 

 

 

Le tue sono immagini etiche. Vedendo il film ci è venuto in mente Il carrello di Kapò di Serge Daney. Come può oggi il cinema esprimere giudizi morali?

 

 Durante le riprese con il direttore della fotografia, che è anche il cameraman, dicevamo: “mi raccomando, niente travelling di Kapò”. Ho fatto leggere quell’articolo a tutti quelli che lavoravano con me, perché mi sembrava esemplare, al di là delle valutazioni sul film, anche se sono d'accordo con Daney sul caso specifico. Credo che, come diceva Godard, “non bisogna fare dei film politici ma fare dei film politicamente”. Questa è la sintesi di come abbiamo lavorato, anche se questa frase l'ho ripescata solo dopo. 

Il modo di fare il film è stato assolutamente originale: abbiamo girato in modo sequenziale dalla prima all'ultima scena, senza che gli attori avessero letto la sceneggiatura, ricostruendo in progress la sceneggiatura e alla presenza di testimoni sopravvissuti ai campi. Tutti questi giovani attori che non hanno avuto esperienza diretta del caso sono stati continuamente a contatto con loro. Il set è stato costruito da operai che spesso erano figli di scomparsi che non avevano lavoro. Hanno costruito le celle seguendo lo stesso procedimento con il quale le avevano construite i militari un anno prima del golpe. Ho tentato di distruggere il set in quanto luogo di aggreggazione di professionisti e di farlo diventare un luogo di riflessione. Questo modo ha permesso di cambiare molte cose. Perfino il finale è cambiato, quando mi sono accorto che il film andava da tutt'altra parte. L'ho potuto fare perché ho lavorato in un certo modo. Se avessi fatto un lavoro tradizionale, avrei girato nella prima settimana l'inizio e la fine, perché è più comodo, e il resto del film sarebbe stato la ricostruzione di una sceneggiatura. Io non credo che una sceneggiatura possa mai essere una gabbia, deve essere uno stimolo per una riflessione sul campo.

 

  Qual è stata la reazione delle vittime dirette e indirette alla visione di questo film?

 

 Molti non l'hanno voluto vedere, è comprensibile. A molti, a delle madri in particolare, ho detto di non andarlo a vedere. Ci sono state delle reazioni molto diverse alla visione del film, essendo il film una visione soggettiva e non poteva non esserlo, era la mia visione. Ci sono madri come Hebe de Bonafini contrarie a tutti i processi in quanto incompleti - per loro bisogna fare solo un processo sul genocidio - che pensano che film come questi non vadano mai visti. Secondo loro si deve prima avere giustizia e poi si parla di quello che è successo. E’ una visione molto massimalista. E’ quasi come se avessero sostituito i loro figli nell'azione politica con lo stesso dogmatismo e la stessa speranza. A me sono molto simpatiche queste vecchiette che vanno a militare nei centri sociali. Ma il loro approccio è molto ideologico. Non tutte le madri sono come Hebe de Bonafini, ce ne sono molte di più, ad esempio le madri della Linea Fondadora, che hanno delle linee secondo me più consone: sono a favore dei tribunali, dei processi.

Ci sono figli delle vittime che hanno molto apprezzato il film. Molti volevano anche recitarvi, impersonando i torturati, ma io  non gliel’ho permesso a meno che non fossero attori e fossero quindi in grado di elaborare la vicenda da un punto di vista professionale. Ci sono figli che non hanno capito il rapporto tra Felix e Maria. Molti hanno voluto sapere che cosa è successo esattamente ai loro genitori in carcere. Altri hanno scoperto come erano morti i genitori. Uno ha scoperto che il padre si è suicidato, bevendo la propria urina dopo essere stato torturato con le scariche elettriche. Per molti è stata una rielaborazione ulteriore della tragedia. A molti sicuramente non è piaciuto: il film è stato al centro di un dibattito fortissimo. In alcuni casi non è piaciuto perchè non era contestualizzato storicamente, perchè non si raccontava dell'ideologia dei militanti. Io ho accennato alla militanza, ma non ho mai detto eplicitamente quale fosse l'ideologia e a che cosa mirassero concretamente,  perché consideravo che parlarne in un film del genere sarebbe equivalso a fare degli slogan. Se al film ci appiccicavo una riunione di militanti di una cellula clandestina non aggiungevo assolutamente nulla, facevo un film alla von Trotta. Uno storico argentino, che per fortuna era scappato all’estero, ha criticato il fatto che i militanti sembrassero tutti molto apolitici. La sua visione è condizionata dal fatto che lui era all’estero e non ha vissuto nessuna delle contraddizioni del sequestro, del campo di concentramento. Rifiuta quello che è avvenuto dentro e conserva un’immagine eroica della militanza. Nel film si capisce che la ragazza non solo lavora in una bidonville ma ha anche rapporti con un'organizzazione, se no non si darebbero appuntamento in uno stadio, l'altra ragazza fa parte chiaramente di un movimento guerrigliero. Quando non è piaciuto è stato per lo più per motivi storici, ideologici, militanti. 

 

Quanto c’è di autobiografico nel film?

 

Nel film non voglio raccontare il mio personale. Non c'è nulla di autobiografico nella trama, se non la “colonna sonora” del campo di concentramento che mi ha accompagnato finché non sono uscito da lì. Sono stato 10 giorni bendato e in testa avevo solo dei suoni che poi mi hanno accompagnato per tutti questi anni. Con quei suoni ho tentato di ricostruire la colonna sonora del film: la radio accessa, il ping pong, le catene trascinate per terra, i chiavistelli che si aprono e si chiudono, i vari livelli di lontananza…

 

Qual è stata la tua esperienza in Argentina?

 

  La mia famiglia è vissuta in Argentina fino al ’72, anno in cui siamo partiti. Io sono venuto con loro in Italia a fare l’università. Ho cominciato a studiare, ma poi ho mollato tutto e nel ’74 sono ritornato in Argentina, avevo deciso di vivere lì. Ho passato il ’75, il ’76, il ’77 andando e venendo dall'Italia. Abbondonata l'università, volevo fare il maestro elementare nei paesi rurali del Nord dell'Argentina. Era un ruolo “politico”, in un paesino c’era il prete e il maestro. L’idea era quella di fare il maestro come militanza politica, almeno in prospettiva. Poi c’è stato il colpo di stato e non ho più fatto il maestro rurale, ma il maestro urbano nelle classi elementari. Sono stato vicino ai gruppi di sinistra, anche a gruppi guerriglieri che avevano operato prima del ’73 ed avevano contribuito al ritorno della democrazia. Erano gruppi che avevano deposto le armi nel periodo della democrazia, ’73 -’76. Dopo il colpo di stato mi sono allontanato dalle organizzazioni guerrigliere, non credevo che lo scontro frontale avrebbe portato a nulla se non al suicidio della stessa organizzazione politica, cosa che si è puntualmente verificata. Quando c’è stato il colpo di stato io ero già lontano da quelle posizioni, essendo uno che andava e veniva dall’Italia, che si era avvicinato a Lotta Continua, che era andato al convegno di Bologna. Avevo sempre la possibilità di fare un raffronto fra i due paesi e quindi forse avevo della situazione argentina una visione più complessa che mi permetteva di non guardare in modo schematico a quello che stava succedendo. Ho avuto una posizione critica rispetto all’azione dei gruppi di sinistra che in genere erano tutti coagulati intorno a gruppi guerriglieri. 

 

Nel film si vedono due ragazze in azione, Maria che fa l’insegnante nelle bidonville e Anna che fa parte di un’organizzazione guerrigliera. Qual era il rapporto tra la guerriglia e coloro che facevano politica di base in quegli anni?

 

 Il movimento guerrigliero in Argentina è nato sulla scia degli anni Sessanta e Settanta,  dall'esperienza della rivoluzione cubana, dei movimenti castristi, dei movimenti peronisti di sinistra come i Montoneros ed è stato il movimento guerrigliero più importante di quel periodo. La guerriglia di sinistra inizialmente non ha operato, nel’73 ha avuto la buonissima idea di aprirsi alla democrazia e di deporre le armi, ma è durato un anno. I Monteneros, pur avendo deposto le armi, accettando Campora prima, Peron poi, cosa che non ha fatto un altro gruppo guerrigliero come l’Erp, non hanno realmente preso sul serio il terreno di confronto democratico. Hanno accettato un periodo di tregua ma durante questo periodo hanno continuato ad armarsi per lo scontro finale. Anche nei Montoneros c’era un errore di fondo: quello di pensare in modo populista. Una logica viziata dalle grandi manifestazioni di massa come quella famosa per il ritorno di Peron. Credo che in qualche modo c’è stato un errore di valutazione su che cosa volesse dire democrazia, un terreno di lavoro in qual momento possibile.

La lotta armata è cominciata a causa delle azioni di gruppi di estrema destra spesso collegati con gruppi della polizia. A questo punto l’estrema sinistra ha reagito, sbagliando. Si è creato quindi un clima di guerra eterna, stavamo ancora in democrazia, e i militari si sono seduti ad aspettare e a costruire le cellette. Questo hanno fatto per tutto il ’75. Avevano imparato dall'esperienza cilena e non volevano ripetere l’errore di agire  alla luce del sole: invece di un unico stadio, tanti stadi, 360 campi di concentramento; invece che in divisa, tutti in borghese. 

La guerriglia nel film viene descritta come un'azione liberatoria, ma allo stesso tempo la reazione reale a cui le sue azioni hanno portato è stata una forte rappresaglia. Si calcola che le persone armate fossero 700, ma i desaparecidos sono stati 30.000. La risposta alla guerriglia, che in un ambito democratico potevano essere i processi, il carcere, è stata una carneficina e non solo per queste persone che per altro  essendo strutturate militarmente all'interno di un’organizzazione clandestina, per molto tempo sono state protette, ma per molte più persone. Coloro  che hanno scelto la lotta armata non avevano capito niente. La destra dice che sono stati loro la causa della dittatura, questo non è vero, ma loro hanno accelerato la situazione. Lo sbaglio da parte della guerriglia è stato quello di accelerare il colpo di stato e poi di continuare invece di preservare le forze e far passare questo momento pesantissimo. I militari non aspettavano che questa scusa.

Il caso della ragazza che mette la bomba nel film, una storia vera, è indicativo. Dopo l'attentato lei è stata portata all'estero, anche se per la demenza dei capi guerriglieri è dovuta ritornare ed è morta in un conflitto a fuoco. Mentre la ragazza che faceva la maestra, che operava nel sociale, facendo politica di base, era esposta a tutto. Ad un certo punto c'è stata una frattura tra la guerriglia (sia i Montoneros sia l’Erp) e i movimenti di base, i primi operavano sul territorio senza pensare che c'erano delle persone che operavano nel sociale e che si sono quindi dovute fermare. C’è stata nei confronti della società civile una visione troppo schematica. Se per una minoranza esisteva la possibilità di fare cose diverse, la maggioranza  subiva l’impatto fortissimo della prospettiva di potere. I leader dei gruppi guerriglieri, soprattutto peronisti, sono stati dei capi militari che però politicamente, intellettualmente, culturalmente valevano zero. Erano personaggi grigi, irrilevanti. Non era come in Europa dove c’erano piccoli gruppi che operavano all'interno di una stabilissima società civile che poi ha reagito in qualche modo bene, come è successo in Italia. 

 

Qual era la posizione della sinistra italiana ed europea di fronte a quello che accadeva in Argentina in quegli anni?

 

 Nel ’75-’76, quando andavo e venivo dall'Italia, tutti mi chiedevano cosa fosse il peronismo, non si riusciva a capire. Il peronismo comprendeva l'estrema destra, l'estrema sinistra, la destra, la sinistra. Questa confusione era difficile da spiegare ai giornalisti e agli intellettuali italiani. Mi ricordo che nel ’74 partecipai alla stesura di un libro di Paolo Sorbi e Vincenzo Sparagna per spiegare, quasi difendendola, la linea dei Monteneros. Era difficile raccontare, non si è capito quale era la situazione neanche dopo il colpo di stato. A differenza del Cile dove nel ’73 è caduto un governo socialista eletto dal popolo con un arco costituzionale molto ampio, in Argentina c’era una tal confusione per cui è sembrato quasi che il colpo di stato fosse venuto a salvare il paese da una situazione politicamente insostenibile. Se a ciò aggiungiamo che c’erano dei forti interessi dell’Italia in Argentina, c'erano la FIAT, la Pirelli…, diventa chiaro perché i giornali, il Corriere della Sera in particolare, hanno frenato l’informazione. Le diplomazie non si sono mai mosse per non turbare gli scambi economici fra i paesi. Se pensiamo che in Cile ci sono 4000, 5000 desaparecidos mentre in Argentina 30 000, ciò vuol dir che, al di là dei numeri, il problema era altrettanto grave, ma non c'è stato altrettanto dibattito internazionale. C’erano i Mondiali in Argentina, ma chi erano i proprietari dei giornali? Erano gli stessi: non solo il Corriere della Sera era della FIAT. C’è stata una tale rete di omertà che è poi venuta a galla: giornalisti andavano in Argentina, denunciavano i fatti, ma i pezzi non venivano mai pubblicati. E’ il caso di Gianfranco Vaccari l’allora(?) direttore della Gazzetta dello Sport: fece un pezzo sugli italiani scomparsi che non è mai stato pubblicato.

 

Il governo militare aveva un progetto economico che si incontrava con gli interessi economici internazionali. 

 

  In Argentina il governo militare aveva un progetto: l’instaurazione di un modello economico liberista. Progetto che in Cile si è realizzato subito creando una tale contraddizione che impedisce, ancora oggi, una riflessione libera rispetto a quello che è avvenuto nel ’73. Poiché Pinochet è riuscito ad installare un governo comunque stabile dal punto di vista economico, poiché è riuscito a rovesciare la situazione della bilancia dei pagamenti, naturalmente con grandi costi sociali, tutti difendono, anche nel centro-sinistra, quello che ha fatto Pinochet dal punto di vista economico. Quest'idea di stabilità è diventata parte anche del nuovo governo di sinistra. Questa è la tragedia cilena. Lo stesso è accaduto in Argentina qualche tempo dopo: i militari non ce l'hanno fatta, hanno perso come gruppo politico di governo, ma ha vinto il loro progetto economico con Menem, peronista, che ha svuotato il peronismo di tutti i suoi contenuti sociali, di opposizione al modello liberista. Nei suoi 10 anni di governo ha imposto il modello economico americano: ha privatizzato tutte le imprese di stato, svendendole a gruppi economici che ci hanno guadagnato. Si è instaurata anche in Argentina una sorta di stabilità: il pesos vale un dollaro. Il prezzo è stato un'americanizzazione completa della cultura, dei rapporti tra le persone. Faccio un esempio: i giovani oggi si riuniscono negli shopping centers; sono centinaia nella città, sono enormi negozi all'americana dove si compra di tutto, ma in realtà nessuno compra, tutti passeggiano, perché non ci sono i soldi per comprare. I giovani si ritrovano lì il sabato e la domenica: c'è un'idea dell'aggregazione, della fruizione della cultura che è puro consumo. 

 

 Oggi in Argentina non c'è opposizione a questi modelli?

 

  Cominciano ad esserci in Argentina delle forme di opposizione in diversi settori ma sono minime. In Argentina oggi ad una manifestazione delle Madri di Plaza de Majo o degli Hijos ci vanno mille persone in una città di tredici milioni di abitanti. Solo quindi le vittime direttamente colpite, coinvolte in quella militanza, ci vanno, il resto della gente se ne frega.

 

 

 

L’intervista si è tenuta presso il “Damm” a Napoli il 27 febbraio 2000.

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